Riforma Pensioni 2018: Baruffi su Fornero e ADV: diciamo la verità ai cittadini

ROMA Riportiamo un post pubblico di Davide Baruffi, Pd, molto esplicativo su una delle tematiche più calde al momento.

Continuo a leggere cose che non le salterebbe neanche un cavallo su padri e figli, pensioni e aspettativa di vita. C’è un furore ideologico che in parte è giustificabilissimo (chiamiamolo pure di classe, visto che a qualcuno conviene), in parte è invece frutto di un indottrinamento pedante (le ideologie servono poi a questo) e che sarà altrettanto arduo scalfire, ancorché parliamo di persone in buona fede. Proviamo lo stesso…

La manovra Fornero – e quelle che l’hanno preceduta nel 2009/2010 introducendo l’aspettativa di vita, l’equiparazione dell’età pensionabile per uomini e donne, ecc. – non servivano a mettere in equilibrio i conti della previdenza ma a risanare i conti pubblici e la loro affidabilità per chi compera il nostro debito. La Corte dei conti ha calcolato che le “riforme” succedutesi genereranno 450 miliardi di risparmio in 15 anni, per la previdenza, a vantaggio della nostra tenuta finanziaria come sistema Paese. Le riforme adottate non servono quindi a pagare le future pensioni dei giovani, posto che la sostenibilità dei conti pubblici è prerequisito essenziale anche per pagare le pensioni (ma ancor prima gli stpendi pubblici, i servizi, ecc.).

Pensioni 2017 e adv: Baruffi : meccanismo perverso che non funziona

Aumentare l’età pensionabile è una misura necessaria se si allunga l’aspettativa di vita, per i giovani e i meno giovani, ma il meccanismo di adeguamento attuale non è stato concepito per pagare le pensioni future. Contrariamente a quanto molti pensano e scrivono, peraltro, questo specifico meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile rispetto all’aspettativa di vita colpisce più i giovani dei meno giovani: mentre ai secondi è richiesto un sacrificio di qualche mese, ai secondi è richiesto in prospettiva un sacrificio di qualche anno. L’adeguamento dell’età pensionabile come introdotto nel 2009 (e accelerato nel 2011) non è inoltre un meccanismo “neutro” né sul piano strettamente statistico, né su quello dell’impatto sociale. Anzitutto misura una cosa molto aleatoria e disomogenea quale l’aspettativa di vita, appunto. Se questa cresce nel 2014 e nel 2016, ma si riduce nel 2015 e nel 2017, il meccanismo oggi registra solo l’aumento. E soprattutto produce la classica “media del pollo”: funziona cioè come se tutti – a prescindere dal territorio di residenza, dall’accesso ai servizi (in primis istruzione e sanità), dalla tipologia di lavoro, dalla richezza disponibile – avessero la stessa aspettativa di vita. Cosa falsa non solo dal punto di vista intuitivo, ma da ogni rilevazione statistica condotta negli anni. Il meccanismo attuale avvantaggia complessivamente i ceti più forti sul piano economico e sociale, a discapito di quelli più deboli (per uno che ci guadagna c’è sempre uno che ci rimette, in una media). Non è un caso, d’altra parte, che ci siano categorie di lavoratori che si sono battute in questi anni per poter rimanere al lavoro più a lungo (docenti università, dirigenti medici, magistrati, ecc.) mentre altre hanno vissuto con angoscia l’innalzamento dell’età pensionabile. Ci sono infatti lavori che non producono usura (e anzi aiutano a invecchiare meglio) mentre altri minano il fisico e la mente delle persone.

Pensioni : non è vero che spendiamo troppo

“Ma noi per le pensioni spendiamo troppo”, si dice. Spesso chi lo afferma trascura il fatto che solo una parte del bilancio dell’Inps è dedicato alla previdenza. E che le comparazioni con gli altri paesi dovrebbero essere fatte correttamente, con dati omogenei. Ad esempio andando a vedere cosa si mette sotto la voce “previdenza”. E magari valutando se il regime fiscale è analogo e come viene computato (ci sono casi clamorosi, compreso quello della Germania). Di tutti questi distinguo non si trova traccia nelle tabelle sui quotidiani. Quel che è certo è che da noi oggi si va in pensione più tardi rispetto agli altri paesi europei. “Non è vero – scrive qualcuno – in Italia c’è ancora chi va in pensione a 60 anni”. Certo, un uomo che ha versato contributi per almeno 42 anni e 10 mesi… Difficile che un giovane domani, con le attuali carriere discontinue, possa versare altrettanto (già oggi per la maggioranza delle donne è un miraggio). E in ogni caso, questa aspettativa di vita così come oggi concepita, chiederebbe a quel giovane di versare contributi per 44 o 45 anni (altro che a vantaggio dei giovani). “Ma c’è chi va in pensione dopo solo 32 anni di lavoro” aggiunge un altro, senza ricordare però che può andarci solo con 66 anni 7 mesi di età.

Pensioni 2017 e adv: Baruffi ‘non confondiamo le mele con le pere’

Si mescolano cioè mele e pere, facendo credere a chi legge di persone che vanno in pensione a 60 anni con 32 di contributi versati. Una scemenza, appunto. I tecnici lo sanno, i giornalisti dovrebbero saperlo, ma un cittadino normale come fa a saperlo se nessuno lo scrive? Legge solo che da noi si spende di più, che si va in pensione prima e che dovrebbe fare un sacrificio per permettere domani a suo figlio di andare in pensione. Sono affermazioni fasulle (ancorché incistate nel senso comune di una parte non piccola di italiani) ma l’ultima è anche un po’ schifosa, perché punta a mettere i padri contro i figli. O meglio, mette i figli dei benestanti contro i padri delle classi lavoratrici. Non è la prima volta che accade: lo scontro tra generazioni (al pari di quello tra territori, tra penultimi e ultimi, ecc.) è una delle tante scorciatoie ideologiche per non guardare le cose nella loro crudezza: il Cattaneo ci ricorda oggi che le 7 persone più ricche d’Italia hanno una ricchezza pari al 30% della popolazione e che il 20% dei più ricchi detiene il 70% della ricchezza complessiva (all’80% dei cittadini resta il 30…). Discutere di padri e figli davanti a questo è semplicemente ridicolo. Cosa ne pensate?

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